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12/17/2012

Uno indiviso - Alcìde Pierantozzi


“Kehinde, il fratello buono, forse non è così buono. Taiwo, il fratello cattivo, forse non è così cattivo.”






Sono due, uno, sono uno indiviso i due fratelli siamesi Kehinde e Taiwo. Nati così, a ipsilon, due busti e solo un paio di gambe. Due cervelli in due teste diverse come  la lingua di un serpente, come due parti di una stessa medaglia indivisibile. Lavorano in una sauna per soli uomini. Nascosti dietro un bancone, hanno il compito di dare le chiavi degli armadietti, fornire asciugamani e preservativi e altri servizi, senza mai far vedere la parte inferiore delle loro arti. Intanto osservano tutto quello che succede lì dentro, dagli appuntamenti più normali alle esperienze sessuali più crudeli. Tutta quella violenza si riverbera su qualsiasi essere finché trova sfogo nell’omicidio di due donne.

Strutturato in gironi, il romanzo presenta l’inferno del mondo d’oggi. I due fratelli, simili ai vasi comunicanti, si raccontano ognuno dal suo punto di vista, scambiando discorsi filosofici e delicati come l’amore divino, la chiesa, l’aborto, il bene e la giustificazione perversa del male, l’omicidio ecc.

Con un linguaggio proprio del surrealismo dalle pagine rimbalzano immagini quasi ripugnanti, descritti a dovizia di dettagli che non ci si riesce più a distinguere tra sogno e realtà, tra ombra e luce, tra conscio e inconscio.

Dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini, l’epilogo del romanzo ritrova una sorta di serenità solo nel passato: “Caspita, fratello. Vieni dal cielo profondo e mi racconti la storia del mondo con una grande metafora”.

Ci si ritrova a ricordare i versi di Pasolini: 
“E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più.”


(Io sono una forza del passato)



 

Aida Baro